Civil War di Alex Garland: il grande escluso agli Oscar 2025

Regista: Alex Garland
Genere: Drammatico/Guerra
Anno: 2024
Durata: 109 minuti

In America, in un tempo imprecisato ma, possiamo intuire, non troppo lontano dal nostro, è in corso una guerra civile. Chi siano le parti in causa, non è chiaro: fascisti e antifascisti; Secessionisti (Western Forces) da un lato e il presidente degli Stati-non-più-Uniti che aspira a un potere quasi assoluto, dall’altro; qualcuno che a essi vuole opporsi.
Chi siano i “buoni” e chi i “cattivi” in tutta questa storia è difficile stabilirlo, se è vero, come è vero, che nelle guerre le ragioni vanno spesso perdute.

In scenari di violenze e devastazioni, che alle guerre (di qualsiasi natura esse siano) fanno seguito, due fotoreporter (Kirsten Dunst e Cailee Spaeny) e due giornalisti (Wagner Moura e Stephen McKinney Henderson) decidono di intraprendere e documentare il loro pericoloso viaggio alla volta di Washington DC che, si vocifera, cadrà presto.

Nel complesso, la storia è tutta qui. Non ci sono grandi sviluppi narrativi e il tutto resta sempre avvolto in una nube di incertezza, protagonisti inclusi. Da quanto questa guerra civile va avanti? Qual è la percezione che se ne ha, varcati i confini nazionali? E ancora, chi sono queste fotoreporter e questi giornalisti, e qual è il loro passato? Ma, soprattutto, in un clima così ostile, loro da che parte stanno?
Quello che sorprende, infatti, è perché nessuno dei protagonisti – seppur colpiti emotivamente da tutta la violenza di cui sono testimoni – esprime chiaramente il proprio punto di vista su una guerra di cui sappiamo pochissimo e che continua a devastare il Paese, in uno scenario apocalittico in cui, a rimetterci, sono tutti.

E, tuttavia, un senso c’è. L’intera narrazione è filtrata (letteralmente) dagli “occhi” delle loro fotocamere, e in quanto fotoreporter e giornalisti di guerra, il loro obiettivo è di riportare i fatti con la più genuina delle obiettività. Cosa pensano e cosa desiderano non ha importanza e non deve averne. Dovranno essere gli “altri”, dovremmo essere noi (spettatori, nel senso più ampio del termine) a porci le giuste domande, a giudicare. Lo spiega benissimo il personaggio di Lee (Kristen Dunst) quando, in preda al panico e al rimorso, la giovanissima Jessie (Cailee Spacey) si chiede se avrebbe potuto fermare un’esecuzione, invece di assistervi impassibile e “senza neppure scattare una foto” a testimonianza dell’accaduto: «Se inizi a farti questo tipo di domande, non potrai più fermarti. Noi non chiediamo. Riportiamo i fatti, così altri faranno le domande. Vuoi diventare una giornalista? Questo è lavoro».

La differenza che intercorre tra Lee, una sorta di idolo del fotoreportage, e Jessie, aspirante giornalista, appena ventenne, dunque, sta nell’esperienza e nella distanza generazionale. Se è vero – come ci dice la stessa Lee – che il segreto dietro uno scatto, un reportage è, spesso, la sospensione del giudizio, una sorta di distacco emotivo, è pur vero che, in realtà, il dolore, il trauma – e ce ne accorgiamo fin da subito – la stanno consumando lentamente.
Non possiamo, però, dire lo stesso di Jessie. Giovane e inesperta Jessie appartiene, infatti, a quella generazione che con le storie e le immagini della guerra civile sembra esserci cresciuta, pur restandone sempre a debita distanza. Una frattura nella storia della sua generazione che si è trasformata dapprima in rabbia, in voglia di riscatto, poi, ancora, successivamente (e tristemente), in una sorta di bisogno: in Jessie, infatti, sembra non esserci davvero una sospensione del giudizio, piuttosto, sembra non provare più nulla, quasi la fotocamera filtrasse e assorbisse tutto il trauma che avrebbe potuto (e, forse, dovuto) riversarsi sulla sua persona. Ma sul finire va anche peggio: di fronte alla brutale devastazione della preannunciata caduta di Washington, Jessie sembra quasi in estasi.

Quello che Alex Garland, dunque, sembra suggerire, pur non mostrando né chiarendo una narrazione incerta (anche su chi siano i vincitori e i vinti ma, su questo, possiamo farcene un’idea) è che alle guerre, quelle civili, quelle globali o, forse, alle guerre tutte, ci siamo abituati. Anche di fronte allo spettacolo della devastazione, anche di fronte alle immagini più crude, abbiamo “sospeso” – come i nostri protagonisti – ogni sorta di coinvolgimento emotivo, lasciando che altri facessero quelle domande che non siamo riusciti a formulare quando era il momento di farle. Garland, dunque, sembra offrirci – complice uno scenario non troppo lontano dall’oggi – la possibilità di fare un passo indietro e, di fronte alle fotografie di uomini sorridenti, accanto ai cadaveri dei loro nemici, di inorridire.

Il regista, dunque, ci lascia soli con i titoli di coda, una manciata di foto meravigliose e struggenti e domande senza alcuna risposta. Una tra tante: di fronte agli scenari di devastazione e guerre civili reali (inquietanti quanto il mercenario interpretato da Jesse Plemons), in un clima di contestazioni politiche che, nei luoghi della cultura prendono il via (Garland suggerisce che la guerra civile sia partita da una rivolta antifascista in un’università), perché si è deciso di escludere questo film dagli Oscar?

Classificazione: 4 su 5.